Finalmente, tastando la parete dell’andito a volta, che dal portone d’entrata immetteva nel cortile, misero le dita su quello giusto, e anche l’ala sinistra del fabbricato fu inghiottita dal buio. «Meno male», conclusero. Ogni cosa era stata fatta per bene. E andarono anch’essi a dormire. Ma di certo il loro sonno, quella notte, non sarebbe stato così sereno come fu, se avessero saputo che, girando quell’interruttore, essi avevano – come vedremo – dato il via a una… reazione a catena di avvenimenti tragicomici, che avrebbero punteggiato la loro lunga e commovente avventura.
Alla fine dei tre giorni giunsero due pullmini Volkswagen – nuovi di zecca, stavolta, appena acquistati – dai quali scese la ventina di giovani della seconda ondata. Tutto un mondo! Con Emilio, il toscano, e Marcelo, l’argentino, c’era, a capo della spedizione, un sacerdote focolarino, don Aldo Stedile, e c’era Ting, cinese di Ciung- King, studente di ingegneria elettronica, e c’era Severiano, del Brasile, laureato in scienze naturali, e c’era Aloisio, indio delle Amazzoni, già abitatore di palafitte e cacciatore di coccodrilli…
Alle 7 di sera, sarebbe dovuto giungere anche il furgone gigante, noleggiato per il trasloco delle «impedimenta». Giunse solo a mezzanotte, «lungo come un dirigibile», ricorda Emilio, e stracarico di mobili. Per strada gli si era rotto il semiasse e aveva dovuto riparare in un’officina d’Arezzo. I venti già arrivati da ore coi pullmini, le valigie al piede e il sonno pesante sulle palpebre, eran stati costretti ad attenderlo in piedi, non sapendo dove poggiare il capo nei locali che Enrico e Alberto avevano sgomberato fin dell’ultima pagliuzza.
Il camionista disse che doveva ripartire subito per Roma. L’indomani mattina lo attendeva un altro viaggio. Quindi: «sotto tutti!», a scaricare di lena e a sistemare qualche giaciglio nelle stanze e tutto il resto, lì per lì, nelle cantine. In un’ora il«dirigibile» fu bell’e svuotato e il carico si trovò al coperto. Il camionista non attese un minuto di più a innestare la «prima». Ora i «pionieri di Loppiano» avrebbero potuto riposare, in qualche modo.
«Buona notte!».
«Buona notte!».
Ma don Aldo ed Emilio, «preoccupati – come racconterà quest’ultimo – di aver dato l’impressione dei selvaggi con tutto quel fracasso nel cuore della notte», si dissero che prima dovevano assicurarsi che tutto, almeno, fosse a posto. «Le luci, ad esempio!». V’erano infatti ancora delle luci che occhieggiavano da alcune finestre. Spensero le lampade del cortile e passarono di stanza in stanza a far buio sul sonno degli amici. Ma, affacciatisi a chiudere un’imposta, s’accorsero che anche dalle finestre di tutta l’ala sinistra della fattoria filtrava la luce. Ritornarono fuori a mettersi alla ricerca dell’interruttore buono. Ne provarono parecchi, individuati qui e lì. Niente, la luce insisteva. Finalmente, tastando la parete dell’andito a volta, che dal portone d’entrata immetteva nel cortile, misero le dita su quello giusto, e anche l’ala sinistra del fabbricato fu inghiottita dal buio. «Meno male», conclusero. Ogni cosa era stata fatta per bene. E andarono anch’essi a dormire. Ma di certo il loro sonno, quella notte, non sarebbe stato così sereno come fu, se avessero saputo che, girando quell’interruttore, essi avevano – come vedremo – dato il via a una… reazione a catena di avvenimenti tragicomici, che avrebbero punteggiato la loro lunga e commovente avventura.
Così, il trentino don Aldo Stedile, primo coordinatore della mariapoli, ricorda la sua prima sera a Loppiano: «Siamo arrivati nel cuore della notte, e con premura ci siamo infilati nelle stanze liberate dal cantiniere della villa di Loppiano, ridotta a fattoria. Non si può proprio dire che la casa fosse abitabile, stando almeno agli odierni standard europei: non era più l’accogliente villa di campagna che aveva ospitato Giovanni Papini. Dovevamo innanzitutto svuotare le altre stanze dalle masserizie e trasferire gli animali, spazzandole alla meno peggio e dormendovi la sera stessa, dopo aver tappato in qualche modo le finestre. Le condizioni esterne erano precarie, ma eravamo felici all’idea di fondare una città».
Il mattino dopo… Era lì, piuttosto impacciato, Pietro il fattore, come uno che ha sul magone qualcosa da dire e non trova il fiato per dirla. Finché, trovatolo, disse: «Stanotte è accaduto un guaio».
«Un guaio? Che guaio?» gli altri, tutti premurosi, attorno.
«Qualcuno ha spento le luci nei pollai… ehm… ehm… e sono morte più di centoquaranta faraone». E indicò con un gesto circolare la carneficina ai suoi piedi, allineata su più file e a più strati. «Soffocate» precisò.
Il buio, nei pollai affollati, può provocare talvolta delle vere e proprie ecatombi. Com’era accaduto appunto quella notte, in uno di quei locali piombati nell’oscurità, dove le faraone, prese dal panico, s’erano buttate in massa verso un angolo, accavallandosi l’una sull’altra.
Conclusione dell’incidente: «Abbiamo dovuto mangiar faraone a tutti i pasti, per una settimana intera – racconterà Emilio -; e inoltre, per farci perdonare quel disastro, abbiamo sentito il dovere di spennarle tutte da noi, sotto la guida, però, della buona signora Irma; la moglie di Duilio, il custode, che ci istruì sul modo più razionale di farlo. A… contropelo, insomma. Naturalmente non fummo in grado di consumarle tutte centoquaranta, e così una buona parte di esse prese la via di Firenze e finì sui banchi dei pollivendoli.