«Qualcuno lo diceva ad alta voce: forse questa democrazia ha ancora spazio per noi, forse è questione di allenamento, è questione di accettare la sfida». Così scrive Daniela Ropelato, professore di Scienza politica presso l’Istituto Universitario Sophia, riflettendo sull’esperienza vissuta durante la 50ma Settimana Sociale dei cattolici in Italia, che si è svolta, dal 3 al 7 luglio, a Trieste, e che era intitolata “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”. Le sue riflessioni.
Più di un anno di preparativi e poi 5 giornate straordinarie a Trieste dal 3 al 7 luglio, per la 50esima Settimana Sociale dei cattolici in Italia (non: italiani, ma in Italia), che aveva per titolo “Al cuore della democrazia. Partecipare tra storia e futuro”. Non possiamo nasconderci che quella politica appare spesso una esperienza lontana dalla vita dei cristiani; ragione in più, quindi, per interrogarci proprio su questo orizzonte che plasma tanto profondamente le nostre città oggi e il nostro futuro.
Ad aprire i lavori è stato il messaggio del presidente Mattarella, mentre papa Francesco ha concluso le impegnative giornate nella cornice della piazza centrale di Trieste; a conferma del fatto che molta parte delle analisi e dei dialoghi non è rimasta all’interno del “Generali Convention Center”, tra i più di mille delegati presenti, ma si è dilatata nella città. Altre 5mila persone, infatti, hanno voluto dare il loro contributo portando in quegli stessi giorni, lungo le vie di Trieste, la loro testimonianza, nei “villaggi delle buone pratiche della partecipazione” (più di 300) e nelle “piazze della democrazia”.
A me, per fare un esempio, è toccato moderare il dialogo in piazza che sabato 6 luglio ha messo a tema la costruzione della pace “dal disarmo alla riconciliazione”. Patrizia Giunti della Fondazione La Pira, Alessandra Morelli/UNHCR e Nello Scavo inviato di Avvenire, hanno saputo condurre più di 400 persone a rinnovare il proprio impegno in prima persona.
Come fare a dire di più? Ad esempio, della metodologia partecipativa che ha intessuto il programma comune nelle due giornate centrali? Il mio era il Laboratorio 6, per l’ambito tematico “Convivenza, cittadinanza, stili di vita”. Venti persone, letteralmente da tutta l’Italia, con due giovani facilitatori, riuniti a condividere riflessioni e proposte. Accanto al nostro, altri 50 gruppi riuniti in “circle”, in grandi sale inevitabilmente rumorose, per 6 ore di lavoro complessive (il doppio rispetto al tempo che nel programma generale è andato all’ascolto dei temi in plenaria): condizioni complicate… eppure ci sono stati risultati interessanti. Non si trattava solo di far incontrare visioni differenti per età e provenienze, ma anche vari profili professionali, civili ed ecclesiali: sindaci, operatori della Caritas locali, sindacalisti, vescovi, economi delle diocesi, membri dei Centri per la vita, giovani ambientalisti, docenti, impegnati nelle parrocchie e nei movimenti ecclesiali, artigiani della pace a 360 gradi. Il metodo, pur serrato, ci ha permesso di esprimerci e di ascoltarci con cura, perché anche le nostre esperienze, così differenti, trovassero voce: una vera prova di intelligenza collettiva, di quelle che a mio parere avranno tanto da dire anche al grande cantiere delle metodologie partecipative di cui la democrazia si alimenta, con spessore sempre maggiore (speriamo!) anche in Italia.
Da parte mia conoscevo il percorso che il regista dell’iniziativa, Giovanni Grandi dell’Università di Trieste, aveva predisposto, ma gran parte dei partecipanti l’avrebbe affrontato per la prima volta. Le possibilità di arenarsi non mancavano, e invece ha funzionato. Solo un esempio: mi ha sorpreso la fase in cui, verso la conclusione, a gruppi di tre siamo invitati a progettare una proposta partecipativa di tipo politico, precisando attori, obiettivi, strumenti. In 20 minuti dovevamo comprenderci e formulare un progetto. C’era il rischio che quel momento si trasformasse in un grande mercato, dato che ciascuno portava con sè almeno una idea da offrire con convinzione agli altri: “qualcosa di cui l’Italia ha bisogno”! E invece ognuno ha tolto il piede dall’acceleratore, non sono affiorate partigianerie, non hanno prevalso quelli che sanno parlare meglio degli altri. Nella nostra terna, l’idea che ha preso forma mi ha convinto anche se all’inizio non era la mia: ora vi leggevo non solo una delle iniziative singolari che le nostre realtà sono in grado di produrre, ma una risposta concreta e coerente anche con la mia analisi, probabilmente valida in tanti contesti. Abbiamo consegnato con convinzione gli appunti condivisi e, con la stessa curiosità, siamo andati a leggere quelli delle altre terne! Qualcuno lo diceva ad alta voce: forse questa democrazia ha ancora spazio per noi, forse è questione di allenamento, è questione di accettare la sfida.
Non possiamo negare che di partecipazione, di ascolto e connessioni, sono piene le nostre giornate, ma quante volte emergono luoghi comuni, tentativi di manipolazione, un certo tecnicismo procedurale… A Trieste le cose sono andate diversamente: è la volontà libera e responsabile delle persone che deve prendere in mano i processi (e com’è importante il rispetto delle regole!), che può e deve orientare l’azione senza smettere di far emergere le criticità, che deve indicare le priorità che costruiscono il bene comune. E la nostra fragile democrazia ha più che mai bisogno di tutti.
Daniela Ropelato