Anche alla nascita di Gesù c’erano dittatori e massacri. Dio sceglie di stare dalla parte dei deboli, vicino e solidale. Il Natale diventa così un grido di speranza, un canto di gratitudine, una vocazione alla prossimità.
di Philippe Van den Heede, docente di Teologia biblica presso l’Istituto Universitario Sophia.
All’inizio del suo vangelo (Mt 1-2), Matteo ci racconta una storia tutt’altro che pacifica: si parla di un dittatore, di occupazione, di massacri, di esilio, di migranti, di rifugiati… Tanti termini che purtroppo fanno spesso notizia sui nostri giornali. Ma queste parole fanno anche parte del racconto del Natale: Erode, occupazione romana, massacro degli innocenti, fuga in Egitto, dove la sacra famiglia trova rifugio. Gesù nasce in un mondo duro e brutale, come il nostro: quello di bambini esiliati e rifugiati. Il Natale contiene anche il loro grido.
Giotto, “Strage degli innocenti”, Cappella degli Scrovegni – Padova
Sin dall’inizio del suo racconto, Matteo ci fa così capire che Dio, in Gesù, sceglie di stare dalla parte dei deboli, vicino e solidale con i più vulnerabili. Ed è proprio questo l’aspetto straordinario della storia del Natale: il Messia tanto atteso non arriva in pompa magna, come un eroe la cui vittoria futura è già celebrata in anticipo. Al contrario, Dio, in Gesù, si fa piccolo, così piccolo che sorge la domanda: «Chi ti ha fatto così piccolo?». «L’amore!». È per amore che Dio raggiunge l’umanità nella sua condizione di estrema debolezza e fragilità: come bambino, Gesù è un profugo; come uomo, muore impotente sulla croce. Ecco la rivelazione dell’amore di Dio in Gesù, che, come suggerisce il suo nome – Yēshūa‛ –, ci salva venendo a prenderci là dove siamo: lontani da Dio. È il messaggio dell’angelo a Giuseppe: «Ella [Maria] partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21).
Così, in mezzo a tutte le ingiustizie e ai drammi del nostro mondo, il Natale diventa un grido di speranza. La nascita di un bambino è sempre di per sé un segno di speranza, una promessa di vita e un’apertura al futuro; ma la nascita di quel Bambino, che Maria dona al mondo, è la promessa di una prossimità incredibile e inaudita di Dio accanto a noi: Egli è l’Emmanuele, Dio con noi (Mt 2,23). Dio non resta lontano, non resta indifferente. Scende nella nostra realtà e cammina con noi.
L’altro racconto della natività, quello di Luca (Lc 1-2), ci porta in un luogo particolare a Beit Sahour, vicino a Betlemme, nel cosiddetto Campo dei Pastori. È lì che gli angeli apparvero cantando: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14). Il Natale è anche un canto! Un canto alla gloria di Dio per questo Bambino che è nato e in cui risiede una speranza universale: quella della pace.
La parola chiave del Natale è la pace, e Cristo stesso è la nostra pace. Perciò, il Natale, che è allo stesso tempo un grido, un grido di speranza, e un canto, è anche una chiamata. All’inizio del suo discorso sulla montagna, vera magna charta del Regno di Dio, Gesù ci chiama ancora oggi a essere veri operatori di questa pace senza scoraggiarci, né arrenderci: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio!» (Mt 5,9). Questa pace si manifesta attraverso semplici gesti quotidiani come l’ospitalità o la capacità di accogliere coloro che ci passano accanto. In realtà, tutto inizia intorno a noi, essendo prossimi: lasciare che lo straniero si avvicini a me e scoprire in lui il mio prossimo; avvicinarsi all’altro e farsi prossimo di quella persona, come il Buon Samaritano (Lc 10,36-37). Il Natale, infatti, è la forza a cui attingono gli operatori di pace e il garante della speranza che ci fa vivere: in una parola, è credere che l’amore vincerà.