Oggi, Venerdì Santo, vi proponiamo un’intensa riflessione di Tommaso Bertolasi, ricercatore ospite presso l’Istituto Universitario Sophia.
La nascita e la morte hanno più di qualcosa in comune. Infatti ogni volta che un bimbo fa la sua comparsa sulla scena della storia, che un uomo o una donna da essa prendono commiato, il mondo cambia. Non è più lo stesso. Entrambe sono esperienze limite, così difficili da capire che di esse hanno detto più e meglio i poeti e gli scrittori che i filosofi. La metafora, più che il concetto, la poesia e l’arte più che la speculazione, sono la lingua per dire il nascere e il morire. Queste due esperienze hanno in comune anche una delle “cose” più affascinanti e fonte di inesauribile ricerca, di cui tutti gli esseri umani fanno esperienza: il corpo. Quella della corporeità è la prima e l’ultima esperienza che ciascuno fa di sé stesso. Nel nascere e nel morire essa è messa alle corde, posta al limite.
È forse per questo che il Venerdì Santo può far pensare al Natale. Quel Dio-bambino che a Betlemme rassomigliando a Maria, sua madre, faceva trasparire il Mistero affasciante del Padre della Vita; fuori dalle mura di Gerusalemme, sul Golgota, rassomigliando a un morente qualunque, mostra il Mistero tremendo di un Padre apparentemente assente. Tra Betlemme e Gerusalemme si inscrive la parabola corporea di Gesù, esse, inoltre, sono le due conseguenze opposte dell’immensità della libertà umana, talmente grande che di fronte a essa perfino Dio non interviene.
Il Dio cristiano, in effetti, è un Dio paradossale. Già a Natale il destino del corpo di Gesù era segnato, così come lo è quello di ogni vita umana che comincia: un giorno, infatti, finirà. Ma perché Dio si fa uomo se sa che prima o poi dovrà morire? Il prender carne del Verbo di Dio fa del cristianesimo una religione veramente peculiare perché rende il corpo umano, non tanto una traccia di qualcosa d’assente, ma l’icona di un Dio presente. Presente soprattutto tra coloro che si amano e ciò non è possibile se non in relazioni incarnate. Eppure, ci sono voluti molti secoli e forse ce ne vorranno ancora, prima di abbandonare una certa mentalità secondo la quale corpo fa equazione con peccato.
Ora, se il corpo – e con esso, in qualche modo tutto il creato – è icona della presenza di Dio, in questo tempo tanto duro che tutta l’umanità sta attraversando, davanti ai corpi sofferenti di tanti malati ci chiediamo spesso dove sia questo Dio. Credo che il Venerdì Santo possa offrire non già una risposta a questa domanda, risposta che forse solo Dio stesso può dare, quanto piuttosto un’indicazione.
L’evento pasquale, in effetti, è scandito nell’arco temporale simbolico di tre giorni. La temporalità è l’altra faccia della corporeità perché, con essa, struttura l’esperienza umana nella storia. E che tali dimensioni siano tra loro intimamente connesse ce lo rivelano i meravigliosi volti incartapecoriti di alcuni anziani. Uno dei possibili significati che sottostanno al triduo pasquale è che appunto la sofferenza, l’angoscia, l’abbandono e la morte che incidono la carne, sono esperienze nel tempo, un tempo che dev’essere transitato. Solo un ammalato o chi di lui s’è preso cura sa quanto tutto ciò può durare.
Il Venerdì Santo è il passaggio dalla cena del giovedì al Golgota, dopo il processo e il Getsemani, un ingresso nella notte dell’abbandono. E le notti e gli abbandoni vanno transitati. Se si cerca di evitarli si è costretti a costruirsi un’illusione a cui credere come fosse realtà, vivendo così in perenne anestesia. Se ci si ferma dentro, invece, si corre il rischio di vivere come se si fosse già morti e allora forse solo una mano amica può aiutarci a uscirne.
L’esperienza delle molte morti interiori e esteriori che prima o poi si affacciano all’esistenza di tutti gli esseri umani, può essere l’occasione di un transitare, magari lungo, senz’altro doloroso e difficile, nel quale però tutte le cose, i valori, gli affetti prendono un posto diverso, il loro giusto posto. Le lacrime che tergono gli occhi, alle volte possono far da preludio a uno sguardo trasparente e limpido sulla complessità di questo mondo. Uno sguardo che dalla notte che forse finirà scorge la promessa dell’alba di un giorno nuovo. Quello della Risurrezione. E se quando si nasce ci sono spesso delle braccia pronte ad accoglierci, il Dio paradossale di Gesù ci esorta a credere che anche quando si muore ci sono ancora delle braccia diverse pronte ad accoglierci.
Tommaso Bertolasi