Inverno del 1964. L’esperienza di Alain, un giovane francese, giunto a Loppiano alla ricerca della verità.
«Per due o tre giorni fu lasciato a riposo, o meglio, nessuno gli disse di far qualcosa, né lui si sognò di offrirsi per qualche lavoro. Girellò attorno, a veder lavorare gli altri. Vide che alcuni, universitari come lui, o già laureati – medici, ingegneri, magistrati – lavoravano da manovali, assieme agli operai di una ditta di Verona, all’installazione di alcune casette prefabbricate che avrebbero alloggiato nuovi studenti; altri spartivano con la massima naturalezza la fatica dei muratori d’un impresa locale, impegnati a gettar le fondamenta del college; un altro gruppo ancora, guidato da Enrico, l’ex commerciante triestino, scavava le fosse biologiche, col fango fino alle ginocchia: quel fango tutto toscano, color ocra, ch’è creta attaccaticcia e scivolosa. Più in là, sulla strada per Campogiallo, alle Pescine, nella progettata zona industriale, tra il frastuono dei bulldozers, un’altra equipe di pionieri, diretta dal tedesco Walter e dal triestino Giampaolo, venuto dai Cantieri di Monfalcone, montava i tralicci di ferro dei grandi pollai. Ogni capannone misurava mille metri quadrati e avrebbe ospitato cinquemila polli, liberando così dai pennuti alcune altre stanze della fattoria di Loppiano, che sarebbero state messe, per quell’inverno, a disposizione della scuola (l’apertura del primo semestre era ormai alle porte) in attesa che sorgesse il college. […]
“Lavorai da matto – mi racconta ora – a trasportare con altri le pesantissime pareti delle case prefabbricate. Ricordo che in quei giorni i miei compagni vivevanola frase: ‘Che importa? Amar Ti importa!’, e una sera Ezio, operaio argentino, ci riferì che mentre reggeva delle grosse sbarre credette proprio di non farcela più. Ma subito aveva pensato a Gesù sotto la croce, e allora aveva trovata la forza di continuare e un senso alla sua fatica. Lì per lì rimasi allocchito; ma qualche giorno dopo… Ecco, stavo portando con altri una cassa greve come il piombo. A un dato punto occorreva alzarla e issarla su per una scala, ma proprio in quel momento uno stivale mi si affondò nel fango. Tirai, tirai; niente da fare, non mi riusciva di liberarlo, anzi sembrava che la melma lo risucchiasse ancor più. Stavo per lasciar lì tutto. Ma subito pensai: ‘E gli altri?’ e mi ricordai […]: ‘Che importa? Amar Ti importa!’ Sfilai lo stivale senza mollare la cassa e proseguii nel pantano e su per le scale, con un piede scalzo. Finalmente ero uscito dal mio egoismo. Il primo passo era fatto! Ma quel passo m’era stato possibile compierlo soltanto per tutto l’amore che m’ero visto intorno in tutti quei giorni, attimo per attimo. C’era chi mi lavava la camicia, chi mi lustrava le scarpe, chi mi serviva a tavola, chi ascoltava pazientemente tutte le mie stramberie, e non c’era nulla che mi spiegasse umanamente tutto ciò. Nulla. Solo il Vangelo. Ed era un Vangelo che potevo toccar con mano”. […]
La vigilia si lavorò di gran lena a gettar ghiaia a palate per cancellare almeno in parte il fango vischioso che abbracciava le prime strutture in cemento armato del college dell’Istituto internazionale “Mystici Corporis”.
L’indomani, 25 ottobre 1964, si sarebbe svolta la cerimonia della benedizione dei lavori e sarebbero giunte molte personalità della Chiesa e parecchia folla di visitatori. La notte si provvide a tirare a lucido i pavimenti della fattoria di Loppiano, ormai battezzata «Villa Eletto», nel ricordo di Vincenzo Folonari [N.d.r scomparso nel Lago di Bracciano il 12 luglio 1964] al cui esempio la scuola voleva ispirarsi.
La mattina dopo – una mattina buia di tempesta – giunse l’arcivescovo Florit da Firenze […] tutti gli studenti, e gli amici. Tanti amici.
Il cielo diluviava sempre, ma nell’ora della benedizione dei lavori si aprì d’incanto al sereno, un sereno incredibilmente azzurro».
(da S.C. LORIT, Loppiano – una città nuova, Città Nuova 1967)