Torniamo ancora al primo giorno. Il quale doveva concludersi avendo nuovamente le luci a protagoniste d’un altro incidente. Mentre infatti un gruppo degli appena arrivati era stato totalmente impegnato, da mane a sera, nell’«operazione spennaggio pollame».
Frattanto, “un altro gruppo s’era dato da fare per sistemare un po’ di mobili e di suppellettili nelle varie stanze, e un terzo gruppo aveva provveduto a installare in un corridoio una specie di cucina (un fornello a gas a tre fuochi sopra un tavolinetto di metallo; tutto qui; e non c’era camino che portasse via il vapore, sicché i cucinieri eran votati ai bagni turchi; e non c’era lavandino per lavar le stoviglie, sicché gli sguatteri avrebbero dovuto arrangiarsi con un catino; e c’era invece un tubo di piombo che saliva su pel muro, nei paraggi, ed era evidentemente bucato, perché quando l’acqua lo percorreva con una certa pressione, schizzava uno zampillo che erogava una doccia fredda a quanti trafficavano attorno alle pentole); mentre dunque si erano affrontati di piena lena questi primi lavori, ecco che Ting il cinese, il quale come sappiamo era studente d’ingegneria elettronica, e con lui lo svizzero Joseph, esperto in apparecchi radiotelevisivi, e il triestino Giovanni, già tecnico ai cantieri di Monfalcone, avevano preso di petto il problema capitale dell’illuminazione. Mancavano infatti, nei locali, parecchie lampadine, e qui e lì i fili eran rotti o marciti. Per le lampadine – cosa da poco qualcuno scese all’Incisa ad acquistarne un certo quantitativo; per i fili, invece, si dovette procedere a ripristinare interi tratti dell’impianto elettrico. Un lavoro tutt’altro che semplice e sbrigativo; ma a sera – la notte già calava – tutto era a posto.
«Sia fatta la luce!» squillò allora un annuncio soddisfatto. E, interruttore dopo interruttore, un locale dopo l’altro si andarono illuminando. Finché ad un tratto… tutti ripiombarono simultaneamente nel buio. E nello stesso istante: «Al fuoco, al fuoco!». L’allarme salì dal cortile, e la voce, preoccupata, fu quella di Giampaolo, triestino pure lui.
Tutti si precipitarono fuori. Dall’andito a volta provenivano bagliori inequivocabili. L’intero «quadro», installato appunto accanto al portone d’entrata, era in preda alle fiamme. Ting, riflessi pronti, calò immediatamente dalle alte quote della fisica nucleare alla pratica comune della pompieristica più banale e, con quattro stracci e qualche secchio d’acqua, attinta al pozzo del cortile, domò l’incendio da cortocircuito.
«I polli!» sonò allora il secondo allarme, altrettanto preoccupato.
E fu così che quella notte i nostri raggiunsero i loro letti brancicando nel buio, dato che tutte le candele a disposizione e le lampade a petrolio scovate nella fattoria furono mobilitate a far luce nei pollai, onde evitare il pericolo di una seconda strage di faraone.
Ma a parte questi due incidenti, in fondo più spassosi che drammatici, con cui si era aperta e chiusa la prima giornata della grande avventura di Loppiano, già in quelle poche ore d’assaggio i nostri pionieri si erano resi perfettamente conto che quella che li attendeva sarebbe stata una vita parecchio dura, di fatica, e senza alcun dubbio disagiata; e tuttavia bella, in quanto tale da offrire loro, più che ogni altra, l’occasione continua di aiutarsi scambievolmente in una autentica gara di carità”.
da S.C. LORIT, Loppiano – una città nuova, Città Nuova 1967